Ci sono giorni in cui guardarsi allo specchio è un atto di coraggio.
Non per vanità, ma perché quello che vediamo ci pesa, ci confonde, a volte ci ferisce. Il corpo diventa un terreno di battaglia: con l’immagine, con le aspettative, con quello che pensiamo di dover essere.
Accettare il proprio corpo non significa amarlo sempre, né ignorarne i cambiamenti. Significa smettere di combatterlo, iniziare ad ascoltarlo. In questo articolo voglio parlarti proprio di questo: di come ritrovare un rapporto possibile, vero, umano con il proprio corpo, anche se oggi ti sembra lontano.
Cosa significa davvero accettare il proprio corpo?
Accettare il proprio corpo non è un atto di rassegnazione, né una meta da raggiungere una volta per tutte. È un processo che cambia con noi, che cresce insieme a chi siamo e a come ci sentiamo nel tempo.
Significa riconoscere che il corpo non è un nemico da correggere, ma un compagno di viaggio. Non perfetto, certo. Ma vivo, presente, meritevole di rispetto.
Accettarsi non vuol dire piacersi sempre. Vuol dire smettere di condizionare il proprio valore all’aspetto esteriore, smettere di dirsi “quando sarò diverso allora andrà meglio”.
È scegliere, giorno dopo giorno, di includere il corpo nella propria identità, non di escluderlo o nasconderlo.
E significa anche accettare le emozioni che il corpo porta con sé: vergogna, rabbia, insicurezza. Non per caderci dentro, ma per ascoltarle come segnali, come parti di una storia che merita attenzione.
Perché accettarsi non è un risultato estetico. È un gesto di verità. E in quella verità, c’è già una forma di guarigione.
Quando il corpo diventa un nemico (e non lo è)
Ci sono momenti in cui il corpo smette di essere un alleato e diventa un peso. Ogni dettaglio sembra sbagliato, ogni imperfezione appare ingrandita, ogni confronto con gli altri ci fa sentire meno.
Questo accade quando il corpo smette di essere “nostro” e diventa un oggetto da giudicare. Quando iniziamo a vederlo solo da fuori, con gli occhi degli altri o con lo sguardo severo che abbiamo interiorizzato.
Lo sguardo sociale, i modelli irraggiungibili, le frasi ascoltate da piccoli: tutto questo può contribuire a farci vivere il corpo come qualcosa da correggere, contenere o nascondere.
In quei momenti, il corpo diventa un nemico. Ma non lo è. È la nostra mente, condizionata da anni di messaggi sbagliati, che ha imparato a leggere il corpo come un problema.
E allora, per difenderci, iniziamo a controllarlo ossessivamente… o a staccarci da lui del tutto.
Ma il corpo non è un nemico. È un luogo di memoria, emozione, presenza. È da lì che possiamo tornare a sentire. E solo ricucendo questo legame (lentamente, con rispetto) possiamo smettere di combatterlo e iniziare a riconoscerlo come parte viva di noi.
Le forme del disagio corporeo
Il disagio corporeo non si presenta sempre nello stesso modo. A volte è evidente, altre volte si nasconde dietro abitudini, pensieri o emozioni che sembrano “normali”, ma che in realtà parlano di una relazione ferita con il proprio corpo.
Ecco alcune forme in cui può manifestarsi:
- Vergogna nel mostrarsi, anche in contesti sicuri o intimi;
- Pensieri ossessivi su difetti fisici percepiti, spesso minimi o inesistenti;
- Confronto continuo con gli altri, che alimenta un senso di inadeguatezza;
- Difficoltà a percepire il corpo come “casa”, come qualcosa che appartiene e sostiene;
- Disconnessione corporea: vivere “nella testa”, ignorando segnali, bisogni, sensazioni;
- Comportamenti di evitamento, come rinunciare a foto, specchi, abiti che rivelano il corpo.
In alcuni casi, questo disagio può assumere forme cliniche più complesse, come la dismorfia corporea o la dispercezione (una percezione alterata del proprio corpo, che non corrisponde alla realtà).
Quando il disagio corporeo si intreccia con il rapporto con il cibo, può essere utile approfondire i segnali dei disturbi alimentari. Ne parlo in questo articolo.
Ma anche senza arrivare a un disturbo conclamato, è importante non sottovalutare il malessere, e dargli uno spazio di ascolto.
Perché il corpo parla. E quando lo fa attraverso il disagio, ci sta chiedendo attenzione, non giudizio.
Accettarsi: un processo, non un traguardo
Accettarsi non è un punto di arrivo, ma un movimento continuo. Ci saranno giorni in cui ci sentiremo bene nel nostro corpo, altri in cui riaffioreranno vecchie insicurezze. Non è incoerenza, è umanità.
Il corpo cambia. Cambiamo noi, cambiano le stagioni della vita. Per questo l’accettazione non può essere rigida né definitiva: è un dialogo aperto, un ascolto che si rinnova.
Accettarsi significa imparare a restare in relazione con sé, anche quando non ci si piace, anche quando emergono giudizi severi. Significa non misurare il proprio valore solo in base a uno specchio, a una taglia, a uno sguardo esterno.
È un processo che ha bisogno di:
- Tempo, perché nulla di profondo avviene in fretta;
- Presenza, perché il corpo non si “capisce”, si sente;
- Compassione, perché accettarsi non vuol dire approvarsi sempre, ma trattarsi con rispetto.
E soprattutto ha bisogno di un cambiamento di sguardo: dal corpo come nemico da migliorare, al corpo come parte viva, intelligente, spesso più saggia della mente.
Accettarsi è questo: scegliere ogni giorno di non voltare le spalle a sé stessə. Anche quando è difficile. Anche quando non ci si sente all’altezza. Anche quando il mondo sembra dirti il contrario.
Quando serve un aiuto psicologico
Ci sono momenti in cui il disagio legato al corpo diventa troppo pesante per essere gestito da solə. Quando il pensiero fisso sull’aspetto assorbe energie vitali. Quando lo specchio diventa un giudice severo. Quando ci si sente in gabbia, anche se fuori tutto sembra “normale”.
In questi casi, chiedere aiuto non è un fallimento. È un atto di lucidità. E soprattutto, di cura profonda verso sé stessə.
Un percorso psicologico può aiutare quando:
- Il rapporto con il corpo è fonte costante di sofferenza;
- Ci si evita, ci si nasconde, si rinuncia a vivere appieno;
- C’è una percezione alterata del corpo (dispercezione, dismorfofobia);
- Il cibo, l’attività fisica o il controllo corporeo diventano ossessioni;
- Si avverte una distanza emotiva dal corpo, come se non appartenesse più a sé.
Nel mio lavoro, affronto questi temi con delicatezza e rispetto. Non per “aggiustare” il corpo, ma per ricostruire la relazione con esso. A volte utilizzo l’analisi immaginativa, che permette di esplorare il corpo come simbolo, come paesaggio interiore, come spazio di verità.
Perché spesso il corpo non è il problema, ma il luogo in cui il problema si manifesta. E partire da lì può diventare l’inizio di una trasformazione più ampia, più profonda, più vera.
Il corpo non va “aggiustato”. Va ascoltato
Viviamo in un’epoca che ci spinge a correggere tutto: imperfezioni, chili, rughe, emozioni. Il messaggio è chiaro: il corpo deve aderire a un’idea esterna, non esprimere una verità interna. Ma questa corsa al “miglioramento” continuo spesso ci allontana da ciò che conta davvero.
Il corpo non è un errore da sistemare. È un linguaggio da decifrare.
Ogni tensione, ogni rifiuto, ogni vergogna che sentiamo, ha qualcosa da raccontarci. E ogni parte di noi che giudichiamo duramente, che sia la pancia, le cosce, le cicatrici, non chiede perfezione, chiede ascolto, presenza, rispetto.
Accettare il corpo non significa smettere di prendersene cura. Significa scegliere di farlo da un luogo diverso: non più dalla paura di non andare bene, ma dal desiderio di stare bene davvero. Di sentirsi interi, radicati, abbastanza così come si è.
E se oggi il tuo rapporto con il corpo è difficile, sappi che non sei solo. E che ogni tentativo di avvicinarti a te stesso è già un gesto di guarigione.
Se senti che il tuo corpo è diventato un luogo di conflitto, possiamo lavorarci insieme. Scrivimi qui per iniziare un percorso di ascolto e riconnessione.